Il Triveneto e il Tricolore

Il Triveneto e il Tricolore

28 Novembre 2014 0 Di Nicoli Dario

 

L’ITALIA S’E’ DESTA: IL TRIVENETO E IL TRICOLORE. Relazione introduttiva
di Giuseppe Iori

Il dibattito sul Risorgimento italiano, su cosa è stato e su come si è svolto, è tuttora aperto, anzi in questo ultimo periodo di celebrazioni sul 150° anniversario dell’unità d’Italia ha trovato una nuova linfa con l’obiettivo di giungerea delle conclusioni certe e definitive.
Il punto di partenza è senz’altro il Congresso di Vienna del 1815, che codifica, per il nostro Paese, un’amara constatazione: il fatto cioè che manca, tranne in pochi intellettuali, una coscienza nazionale, quella cioè di “essere italiani”. Lo aveva affermato, giustamente Ugo Foscolo nella sua produzione, quando ad esempio, nei “Sepolcri” dichiarava che l’unico centro di italianità era un monumento funebre, vale a dire il tempio di Santa Croce a Firenze, dove riposavano “l’itale glorie, uniche forse da che le mal vietate Alpi e l’alterna onnipotenza delle umane sorti armi e sostanze t’invadeano ed are e patria e, tranne la memoria, tutto”. E auspicava “che ove speme di gloria agli animosi intelletti rifulga ed all’Italia, quindi trarrem gli auspici”, considerato anche il fatto che “già il dotto e il ricco ed il patrizio vulgo, decoro e mente al bello italo regno, nelle adulate reggie ha sepoltura già vivo, e i stemmi unica laude”.
Aveva quindi ragione il primo ministro austriaco principe Metternich di sostenere che allora l’Italia era “un’espressione geografica”; del resto, più o meno negli stessi anni Alessandro Manzoni nell'”Adelchi” definiva il popolo italiano “un volgo disperso che nome non ha”. Don Lisander però cambia idea in “Marzo 1821”, un’ode scritta in occasione dei primi moti patriottici nazionali, quando riconosce che quello stesso popolo italiano stava acquisendo finalmente una consapevolezza e un’identità, per cui, se la libertà dell’Italia dallo straniero è voluto da Dio, che protegge “tutti i popoli che combattono per difendere o per riconquistare una patria”, è anche vero che la libertà va cercata e realizzata dai protagonisti, in modo che non “sorgan barriere tra l’Italia e l’Italia, mai più”.
E proprio Manzoni (che nei “Promessi Sposi delineerà il modello della futura Italia) nella stessa poesia propone un’ottima definizione delle caratteristiche di base per l’idea di patria, che ancor oggi conserva intatta la sua attualità: “una d’arme, di lingua, d’altare, di memorie, di sangue, di cor”. Ed è in quello stesso periodo (!820-1821) che inizia il nostro Risorgimento, quando cominciano la protesta e la lotta armata contro la Restaurazione, anche se verranno soffocate dallo strapotere dell’ Impero asburgico, in base al principio dell'”intervento” stabilito dalle Potenze della Santa Alleanza (Austria, Prussia, Russia e Francia); la stessa sorte toccherà ai moti del 1830, che mettono in risalto, al di là del valore ideale, l’ingenuità dei patrioti rivoluzionari.
Nel periodo che va fino al 1848 (la prima guerra di indipendenza) si apre così il dibattito tra gli intellettuali dell’epoca su come risolvere la “questione italiana”, su come cioè raggiungere l’indipendenza e l’unità del paese. Come è noto, quattro sono le principali teorie in proposito:
1- Giuseppe Mazzini voleva l’Italia “una, libera, indipendente e repubblicana”;
2- Carlo Cattaneo privilegiava invece il sistema “federale” sul modello degli Stati Uniti d’America e della Confederazione Elvetica, eliminando tutti i principi allora regnanti;
3- Vincenzo Gioberti proponeva invece una Confederazione “inter pares” fra i sovrani esistenti con la presidenza assegnata al Papa, in quanto anche Capo della Chiesa universale (il neoguelfismo);
4- Cesare Balbo sosteneva che l’unica casa regnante attorno alla quale si potesse raggiungere l’unità del Paese era casa Savoia.
Dopo il fallimento del biennio 1848-1849 (anni in cui comunque tutta l’Europa è in subbuglio e che vede imporsi per l’ultima volta la logica dell’Ancien Régime), comincia la fase della realizzazione dell’unità d’Italia, grazie soprattutto a tre personaggi che avranno un ruolo decisivo (senza per questo dimenticare l’importanza dei tanti intellettuali che, oltre a quelli sopra citati, contribuirono in teoria e in pratica a formare una coscienza nazionale; tra tutti ne ricordiamo uno solo, Goffredo Mameli, autore nel 1847 dell'”Inno Nazionale”): Giuseppe Garibaldi, Vittorio Emanuele II e Camillo Benso conte di Cavour; fu proprio quest’ultimo il protagonista in assoluto.
Il suo primo merito, durante il “decennio di preparazione”, dopo che il Regno di Sardegna era riuscito a mantenere lo Statuto Albertino che fino al 1947 sarà la Costituzione di tutto il Paese, fu quello di capire che l’Italia da sola era troppo debole per opporsi a quello che era diventato l’Impero Austro-ungarico; ecco allora che egli si propose di internazionalizzare la “questione italiana”, creando le opportune alleanze con due altre Potenze europee: la Francia di Napoleone III, che mirava a una politica anti-austriaca, e l’Inghilterra, che da sempre era attenta a favorire le lotte continentali tra le nazioni europee in modo da essere più libera di esercitare la sua superiorità economica e politica a livello mondiale. Più tardi, nel 1866, l’Italia seguirà la stessa logica alleandosi, sempre contro l’Austria, con la Prussia di Bismarck.
In ogni caso fu soprattutto l’Inghilterra che favorì decisamente la formazione del nuovo Regno d’Italia: data la posizione geografica dell’Italia estesa nel mezzo del Mediterraneo era preferibile la presenza di un nuovo Stato, per forza di cose debole, piuttosto che il mantenimento dell’Austria o il rafforzamento della Francia, come desiderato da Napoleone III; così il suo sostegno diplomatico e politico (palese e/o nascosto) fu chiaramente decisivo fino al 1870.
Così Cavour, oltre a realizzare una serie di importanti riforme interne modernizzando il Regno di Sardegna e a favorire la popolarità della casa di Sardegna in tutta Italia con una serie di iniziative culturali e politiche, partecipò alla guerra di Crimea nel 1855 a fianco dell’Inghilterra e della Francia contro la Russia nell’ambito della vecchia Questione d’Oriente, potendo così sedersi a fianco dei vincitori al Congresso di Parigi del 1856 e ottenendo di discutere il “problema italiano”, isolando così l’Austria. Fu poi la volta dei Patti di Plombières del 1858 con Napoleone III, che aspirava a sostituirsi all’Austria in Italia, con la creazione nella nostra penisola di quattro stati: il nord a casa Savoia, il centro a un re francese, lo stato della Chiesa al Papa, il Sud a una casa filo-francese.
Si arrivò così al biennio decisivo, il 1859-1861. In primo luogo la seconda guerra di indipendenza, che segnò un altro trionfo diplomatico di Cavour, dopo l’inatteso armistizio di Villafranca tra Napoleone III e Francesco Giuseppe, che segnò comunque un’umiliazione politica del Regno di Sardegna, che ottenne la Lombardia, ma non direttamente, ma attraverso l’imperatore francese. Comunque tutto il Paese si era sollevato: in particolare l’Emilia-Romagna e la Toscana si erano ribellate al potere di Pio IX e degli Asburgo Lorena e con i plebisciti del marzo 1860 si erano unite al Piemonte. Ci fu una seria crisi diplomatica con Napoleone III che vedeva la situazione prevista da Plombières radicalmente mutata e Cavour riuscì a tacitare l’imperatore francese e l’orgoglio ferito della sua nazione con il “sacrificio” di Nizza e della Savoia.
Nel frattempo anche il Regno delle Due Sicilie si stava ribellando ai Borboni: di qui l’iniziativa della spedizione dei Mille di Garibaldi, favorita segretamente da Cavour e appoggiata tacitamente dall’Inghilterra. Il progressivo avanzare di Garibaldi allarmò soprattutto Napoleone III, che minacciò l’intervento diretto, per cui, anche perché c’era il pericolo che Garibaldi puntasse decisamente su Roma, Vittorio Emanuele II e Cavour superarono ogni indugio e, dopo il rifiuto di PioIX di permettere il passaggio nel suo stato delle truppe piemontesi, l’esercito sabaudo liberò dal potere pontificio tutte le regioni centrali, tranne il Lazio; il 25 ottobre 1860 ci fu così l’incontro a Teano tra Vittorio Emanuele II e Garibaldi, che “regalò” al re l’ormai ex regno meridionale; i relativi plebisciti confermarono tale unione.
Così il 17 marzo 1861 si riunì a Torino il primo Parlamento del nuovo Regno d’Italia, a cui mancavano ancora il Lazio e il Triveneto. Purtroppo il 6 giugno dello stesso anno morì Cavour e il Paese rimase privo di un grande protagonista. Il problema più impellente era naturalmente quello di Roma, ma le trattative tra l’Italia e la Santa Sede non decollarono mai per il rifiuto di Pio IX; Garibaldi però non si arrese e effettuò vari tentativi, che crearono infinite polemiche nella popolazione (in particolare l’episodio di Aspromonte nel 1862 dove lo stesso generale fu ferito). Soprattutto per calmare la Francia, nel 1864 fu stipulata la Convenzione di settembre, con cui l’Italia, in cambio del ritiro delle truppe francesi da Roma, si impegnò a rispettare l’indipendenza del papa, trasferendo inoltre la capitale a Firenze, con vibrate proteste da parte di Torino, disposta naturalmente a rinunciare al suo ruolo solo a favore di Roma.
Nel 1866 vi fu, come sopra ricordato, la terza guerra di indipendenza, nel corso della quale sia l’esercito che la marina subirono due sconfitte, mentre Garibaldi fu fermato da un ordine regio sulla strada di Trento. Comunque, grazie alla vittoria dei prussiani sull’Austria, questa cedette il Veneto all’Italia, ma ancora una volta tramite Napoleone III, che in ogni caso era rimasto neutrale.
La questione di Roma fu risolta nel 1970, dopo la sconfitta subita da parte della Prussia dall’imperatore francese e la sua eliminazione dalla scena politica. L’Italia per la verità ancora una volta non fece una bella figura, perché con un sottile distinguo dal punto di vista diplomatico sostenne che la Convenzione di settembre era stata stipulata con Napoleone III e non con la Francia. Quindi il 20 settembre, dopo l’ennesimo rifiuto di Pio IX, le truppe italiane, guidate dal generale Raffaele Cadorna, aprirono una breccia presso Porta Pia e vinsero la debole reazione dell’esercito pontificio, mettendo così fine, dopo un millennio, al potere temporale della Chiesa.
Va anche ricordato che, a differenza delle occasioni precedenti, nessuna Potenza europea intervenne e Pio IX rimase così isolato, soprattutto per la sua politica negli ultimi anni, come il “Sillabo”, che condannava esplicitamente ogni forma di progresso e le principali posizioni sia del liberalismo che del socialismo, e il Concilio Ecumenico Vaticano I, nel corso del quale fu proclamata come dogma di fede l’infallibilità del papa quando egli parla ufficialmente dalla cattedra di Pietro in materia di fede e di morale, alienandosi così la simpatia dei sovrani che vedevano in tale dogma una specie di ritorno alla teocrazia medievale.
Lo stato italiano in ogni caso emanò nel maggio del 1871 la “Legge delle guarentigie”, che garantiva un’ampia indipendenza e autonomia al pontefice, al quale veniva confermato il rango di “capo di stato”, inoltre alla Città del Vaticano veniva riconosciuta l’extraterritorialità e al papa veniva assegnato un congruo contributo annuo in denaro.
Ma la reazione di Pio IX e dei suoi successori fu durissima: egli si proclamò “prigioniero” in Vaticano e nel 1874 emise il “Non expedit”, un documento che vietava formalmente ai cattolici di partecipare sia attivamente che passivamente alla vita politica (né eletti né elettori) dello stato italiano. I rapporti tra Stato e Chiesa rimasero così bloccati per circa trent’anni,e solo nel 1929 si arrivò alla riconciliazione tra le due istituzioni con la firma del Concordato( i Patti Lateranensi).
All’unità del Paese (il raggiungimento dei “confini naturali” mancavano ancora il Trentino, l’Alto Adige, il Friuli e la Venezia Giulia, obiettivo che sarà conseguito solo alla fine della prima guerra mondiale (1914-1918), che per molti storici è considerata la quarta guerra di indipendenza, anche se rimarrà ancora irrisolta la questione di Fiume.
In ogni caso il nuovo Regno d’Italia, oltre al “Non Expedit” e alle sue conseguenze, nasceva con una serie di gravi problemi che rimasero spesso irrisolti, soprattutto per lo scarso valore della classe politica, decisamente incapace, a parte Giovanni Giolitti che comunque fu molto discusso, di dimostrarsi all’altezza di Camillo Cavour.
Ricordiamo i principali:
1- la posizione di casa Savoia, che spesso considerò l’unità d’Italia più come un allargamento dei propri domini; ad esempio il primo Re d’Italia preferì conservare il numero di II, invece che di I, come sarebbe stato più logico;
2- le forti differenze economiche e sociali, con la supremazia del cosiddetto “triangolo industriale” (Lombardia, Piemonte Liguria) sulle altre regioni, con la conseguenza di alimentare l’emigrazione sia interna che verso l’estero;
3- l’abisso che in ogni caso divideva il Nord dal Sud, decisamente arretrato, il che provocò, oltre allo squilibrio economico e sociale appena ricordato, la nascita e la diffusione del fenomeno negativo del “brigantaggio meridionale”, che non fu mai del tutto debellato;
4- l’analfabetismo molto diffuso in tutta Italia, con particolare riguardo per il Sud: solo nel 1876 fu realizzato l’obbligo scolastico fino alla seconda elementare, però ci fu un alto tasso di evasione a tale provvedimento, oltre all’analfabetismo di ritorno;
5- il sostanziale isolamento politico che la nuova Italia dovette affrontare. Infatti l’Austria-Ungheria aveva assistito al progressivo sgretolamento dei suoi domini nel Paese; la Prussia, diventata Germania nel 1870, una volta risolto ogni problema con l’Austria, aveva ripreso la tradizionale alleanza di inizio Ottocento; la Russia era lontana e, pur rimanendo un grande stato, si stava avviando sia pure lentamente verso una lunga crisi; l’Impero Turco accentuava progressivamente la sua debolezza che lo aveva reso il “grande malato” del XIX secolo; la Francia aveva ancora il dente avvelenato per le sconfitte diplomatiche della sua politica in tutta la seconda metà dell’800; l’Inghilterra che, come è stato detto prima, era stata determinante per il conseguimento dell’unità d’Italia, ora non aveva più nessun interesse a rafforzare il nuovo stato, che avrebbe potuto minacciare la sua supremazia nel Mediterraneo.
Così si diffuse ben presto l’idea di “Risorgimento tradito”; inoltre la morte di molti protagonisti dell’unità (Garibaldi, Mazzini, Cattaneo, Vittorio Emanuele II, Manzoni) impoverì il quadro complessivo; infine la grande maggioranza degli intellettuali assunse posizioni di isolamento o nettamente antistataliste. In tale dimensione l’Italia nel 1882, rovesciando clamorosamente la sua politica di decenni, si vide “costretta” ad aderire alla “Triplice Alleanza” con la Germania e la sua tradizionale nemica, l’Austria. Ne seguirono molte polemiche e infinite proteste: sostanzialmente si dimostrava vera l’affermazione di Massimo D’Azeglio che “era stata fatta l’Italia, ma ora bisognava fare gli Italiani”, cosa che fu raggiunta, secondo molti storici, solo nelle trincee della prima guerra mondiale.

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