Nuovo riconoscimento a Marco Bottoni

Nuovo riconoscimento a Marco Bottoni

27 Settembre 2014 0 Di Nicoli Dario

Con il racconto “Tratto da una storia vera” Marco Bottoni, socio del Lions Club Badia Alto Polesine, ha vinto il concorso “Insanamente” bandito da Fara Editore (Rimini) per poesie e racconti sul tema della follia-disagio mentale.

Il Premio corredato di Medaglia del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano era patrocinato dal Lions Club di Cattolica (nella foto  Bottoni con il Presidente del LC Cattolica). L’Editore Fara ha raccolto in una antologia la poesia e il racconto vincitori e quelli classificati ai primi posti pubblicandoli in un volume dal titolo “Siamo tutti un po’ matti” Sull’onda dell’entusiasmo per il successo, Marco Bottoni ha scritto una breve piece fatta di dialoghi monologhi e canzoni che farà da presentazione all’uscita del volume e che è stata data in pubblico martedì 23 settembre presso il Basilico Rosso di Castelmassa.

Tratto da una storia vera

Io non sono matto.

Sono solo stanco.

Dio, che caldo!

Fa un caldo insopportabile, e io non dormo, la notte.

Il fatto è che lei mia ha lasciato, e io non riesco più a
dormire.

Mi ha mollato con questo caldo, e io resto qui a domandarmi
se sono io che ho sbagliato qualcosa oppure se sono io che ho sbagliato tutto.

Quale che sia la risposta, non dormo.

Le notti e i giorni si susseguono, uno più torrido
dell’altro, dicono in TV che è l’Anticiclone delle Azzorre, gli amici mi dicono
che è tutta una serie di concause, io dico che è lei che è una stronza;
comunque sia, mi sono ridotto a una specie di relitto umano.

Ho perso quasi dieci chili di peso, ho gli occhi iniettati
di sangue e due borse paurose sotto gli occhi; trascuro spesso di radermi e
quando mi rado mi riempio la faccia di tagli, dice un mio amico psicologo che è
un mio desiderio inconscio di infliggermi una punizione perché mi sento in
colpa per non essere riuscito a tenerla con me.

Io dico che il motivo vero è che lei è una stronza, ma anche
dirlo non serve a niente.

Il guaio è che anche il lavoro ne risente.

A inizio giornata sono già stanchissimo, faccio fatica a
concentrarmi, non passa ora che non avverta il desiderio di trovarmi in
qualsiasi altro posto.

Non me ne frega più niente di quelli che hanno la pressione
alta né di quelli che hanno la pressione bassa e, quel che è peggio, non riesco
a concentrarmi nemmeno di fronte a sintomi per loro natura preoccupanti:
proprio oggi doveva montargli un febbrone così alto, a questo qui?

Andando avanti così, va a finire che, anche senza volerlo,
ne ammazzo qualcuno.

Certo che, anche lei, lasciarmi con questo caldo…

Sto facendo la spesa, non lo so cosa mi serve davvero, avevo
fatto una lista ma, ovviamente, ho dimenticato il biglietto sul tavolo.

D’altra parte, ultimamente dimentico tutto.

Non ho più testa per niente, uscendo lascio aperta la porta
di casa oppure, se la chiudo, dimentico in casa le chiavi, così per rientrare
mi tocca forzare la serratura.

L’amico psicologo dice che il motivo è il mio desiderio
inconscio di non abitare una casa vuota, io dico che il motivo è che lei è una
stronza.

Spingo il carrello lungo le corsie e prendo la roba a caso
dagli scaffali, ma non fa poi una grande differenza, tanto, oltre a non dormire,
mangio così poco…

Suona il telefono, e io rabbrividisco.

Sono le due del pomeriggio, e se mi chiamano a quest’ora
vuol dire che si tratta di un mezzo casino.

“Dottore, può venire
subito, per favore?”

È un casino.

Grosso.

“Chiarelli si è
barricato dentro i locali dell’ambulatorio.”

Chiarelli è un matto.

Il Collega psichiatra dice che è un soggetto affetto da disturbo
paranoide, con scarsa compliance alla terapia, ma io dico che è un matto.

È convinto che lo stiano torturando per mezzo di onde
magnetiche prodotte da apparecchi elettromedicali e, ultimamente, dice anche di
conoscere nome e cognome di chi manovra gli apparecchi.

“Minaccia sfracelli. Dice
che accetta di parlare solo con lei.”

Due settimane fa ha anche costruito una rudimentale bomba
molotov, riempiendo di benzina una bottiglia di birra, e l’ha lanciata nel
cortile di un vicino di casa, che lui sostiene essere uno dei partecipanti al
complotto.

“Dottore, venga più
presto che può!”

Ma deve averla costruita in modo maldestro, perché lo
stoppino non ha preso fuoco.

“E’ nell’ambulatorio
chirurgico, ci sono anche i bisturi!”

E poi, era una bottiglia piccola.

Esco in fretta dal centro commerciale, arrivo a casa che
sono le due e mezza del pomeriggio più caldo degli ultimi venticinque anni; scarico
in fretta le borse della spesa, di mettere in frigo la roba deperibile non c’è
tempo, venga più presto che può… ha
detto l’infermiera, accorata.

Sono sul posto
dodici minuti dopo la chiamata, il burro si starà sciogliendo nella borsa di
plastica sul pavimento dell’ingresso.

Proprio oggi gli doveva scoppiare la mania suicida a questo
qui?

“Ecco, venga, è qui…
signor Chiarelli, la prego, apra la porta! C’è il Dottore!”

‘Fanculo il burro, il guaio è che non mi ricordo se ho
chiuso la porta di casa.

Alla fine, Chiarelli ha ceduto.

Mi ha aperto la porta, mansueto come un agnellino, e come se
niente fosse mi ha dichiarato che “sì, se
mi ci accompagna lei, ci vado in ospedale.”

Considerando quello che sto passando, non nego che mi
farebbe piacere, adesso, sentirmi un po’ eroe.

“Il pronto intervento
del Medico evita il possibile omicidio-suicidio…”

Ma sono troppo stanco per abbandonarmi a fantasie
narcisistiche.

“Sì Chiarelli,
l’accompagno io. Andiamo.”

E poi, nell’armadietto dei ferri non c’era neanche un
bisturi.

Prima di partire ho chiamato Psichiatria.

“Mi passi il Medico di
Guardia, per cortesia. È una cosa urgente.”

Oggi, in Psichiatria, è di guardia Maura.

“Sono Maura, dimmi.”

Abbiamo fatto l’Università insieme, lei bellissima e io che
cominciavo già a perdere i capelli.

Il primo anno no, perché ero troppo intento a studiare, ma
al secondo anno mi sono accorto dei suoi splendidi occhi di cerbiatta, e mi
sono innamorato.

Lei, quasi contemporaneamente, deve essersi accorta che
avevo due occhiali spessi come fondi di bottiglia, nonché una lunga serie di
motivi per essere lasciato tranquillo a studiare, perché di me non si è
innamorata per niente.

Cose che capitano.

“Arrivo con Chiarelli,
ha minacciato il mondo intero ma poi ha parlato con me e si è calmato.”

Sono stati anni duri, quelli dell’Università, e non per
colpa dello studio.

“Ha detto che è
disposto a farsi ricoverare.”

Bocciarmi, non mi hanno mai bocciato.

“Lo accompagno io, con
la mia automobile.”

È che lei non mi ha mai guardato.

“Solo, fa in modo di
essere lì, quando arriviamo…non vorrei che, all’improvviso, cambiasse idea…”

Solo una volta, in sei anni, si è appartata un momento con
me, a parlare.

Mi guardava negli occhi e con la voce rotta dall’emozione mi
ha detto: “ma a te non viene mai voglia
di fuggire?”

“Molto spesso, da tre
anni, a questa parte” le ho risposto con gli occhi, dato che non riuscivo a
spiccicare parola.

“Io ci penso spesso. E
tu?”

“Tutti i giorni” ho
detto io, muto.

“E sai con chi, mi
piacerebbe fuggire? Non lo indovineresti mai!”

“Con me?!?” mi è
rimasto chiuso nella strozza, mentre diventavo paonazzo.

“Con un guerrigliero
di Sendéro Luminoso!”

Sendéro Luminoso era, all’epoca, una organizzazione
paramilitare di guerriglieri Tupamaros, uomini bellissimi e dannati, con chiome
fluenti e barba ispida, armati fino ai denti e disposti a rischiare ogni giorno
la vita nella romantica, eccitante e pericolosissima avventura della guerra di
Rivoluzione in America Centrale.

“Siamo lì fra venti
minuti.”

America Centrale o Meridionale?

Cosa importa? Tanto io, all’epoca, non avevo mai impugnato
nemmeno un coltello a serramanico, avevo perso già quasi tutti i capelli e
l’avventura più pericolosa che mi capitava di vivere era il pasto alla mensa
universitaria.

“Arriviamo.”

Inoltre, non conoscevo neanche una parola di Spagnolo.

“Aspettami.”

Cose che capitano.

Arriviamo in ospedale, io e Chiarelli, che fa un caldo
tremendo.

Mi sembra di svenire, ci saranno quaranta gradi, non dormo
da tre giorni e da non so quanti non faccio un pasto decente.

All’ingresso in reparto ci accoglie una infermiera, non so
se carina o bruttina perché ne distinguo a malapena i contorni del viso, gli
occhi mi bruciano da morire.

“Ho telefonato, la Dottoressa ci aspetta.”

Non so nemmeno se ho chiuso l’automobile, ma che importa?

L’importante è che Chiarelli si è ammansito, e che Maura mi
aspetta.

Incontro Maura nell’atrio, vicino alle macchinette del
caffè.

A forza di non mangiare e non dormire, per stare su bevo un numero spropositato di
caffè al giorno; passata un’ora dall’ultima tazzina comincio ad avvertire i
sintomi della crisi da astinenza: tremori, difficoltà a concentrarmi, vista
appannata.

Anche un groppo in gola, mi viene, e una sensazione dentro
il petto come se il cuore invece di battere facesse dei tonfi.

Dice il mio amico psicologo che sono segni di somatizzazione
dell’ansia; io dico che è la stronza, che mi ha mollato.

Incontro Maura che beve quello che è, forse, il secondo
caffè della sua giornata.

Lei è bellissima, io faccio schifo.

Barba incolta e viso smunto, occhi arrossati e palpebre
gonfie, puzzo di disperazione lontano un miglio.

Probabilmente, anche di qualcos’altro: ho la maglietta tutta
spiegazzata e intrisa di sudore.

In un attimo realizzo che non ci vediamo da un sacco di
tempo.

“Ma… cosa ti è
successo?”

Eh già, al telefono ha sentito solo la voce.

“È una cosa lunga…ti
dirò.”

Conciato così, devo fare un certo effetto.

“Ma…non è che sei
malato?”

Non so più niente, solo che nella penombra dell’atrio lei è
bellissima, mentre io faccio sicuramente pietà.

“Beh, mi dirai.”

Non so niente e non dico niente.

Neanche che, nel frattempo, ho imparato lo Spagnolo.

Adesso siamo seduti nello studio medico, io e Chiarelli su
due poltroncine, Maura dietro la sua scrivania.

È molto bella e molto professionale, mentre parla con
Chiarelli usa un tono di voce basso, rassicurante.

“Allora, signor
Chiarelli, mi dice il Dottore che lei, ultimamente, non è stato troppo bene…”

Deve “agganciare” Chiarelli, ottenere da lui un consenso a
farsi ricoverare.

“Come si sente,
adesso?”

È davvero brava nel suo mestiere: mentre lo ascolta non lo lascia
un istante con gli occhi, gli lancia sguardi dolci e rassicuranti, lo mette a
suo agio.

A me rivolge solo una rapida occhiata ogni tanto, ma è
giusto così: il paziente è lui, mica io.

“Ha voglia di parlare
con me dei suoi problemi?”

“Mi sento stanco,
molto stanco.”

A chi lo dice! Mentre Chiarelli parla, io comincio a
rilassarmi.

“Dormo quattro o
cinque ore per notte.”

Il doppio di quello che dormo io.

“Mangio poco, sono
calato di peso.”

Io è da ieri sera che non butto giù niente.

“Tre chili, almeno.”

Beato lui!

“Mi trascuro:
stamattina non mi sono nemmeno fatto la barba.”

Chiudo gli occhi e mi passo una mano sulla barba ispida che
ho.

“Non ce la faccio più
ad andare avanti così!”

Questo non so se lo dice lui o se lo sto pensando io: le
voci di Maura e di Chiarelli mi si confondono, mi tremano le mani e ho la vista
appannata. Ho bisogno di un caffè.

Finalmente, arriva la domanda.

“Allora, signor
Chiarelli, vuole rimanere per qualche giorno qui con noi?”

Sì, rispondi sì!

“Sì, va bene.”

Ci starei io, qui con te.

“Resto.”

Maura alza il ricevitore del telefono per chiamare la
caposala, in reparto.

“Il signor Chiarelli
si ferma qui con noi. Potete mandare qualcuno per accompagnarlo?”

Entra nello studio un uomo corpulento e massiccio, indossa
una maglietta bianca che gli mette in evidenza i pettorali sviluppati.

“Buongiorno, Walter.”

È il prototipo dell’infermiere di reparto psichiatrico; lo
capirebbe anche un matto che non è il caso di mettersi a fare i capricci con
uno come lui.

“Il signor Chiarelli
si ferma qui da noi. Andrà nella stanza numero 15″

Walter fa un cenno di assenso a Maura, poi muove un passo
avanti: muovendosi deciso, mi ha già afferrato per un braccio.

Maura fa appena in tempo a dire: “No, Walter, c’è un equivoco…”

Walter mi guarda con sospetto, io guardo lui con
rassegnazione.

“…quello è il Dottore.
È il signor Chiarelli che si ferma qui
con noi.”

Io, per parte mia, ringrazio la buona salute di Maura: se
avesse sofferto anche solo di una semplice forma di cistite, e si fosse
assentata un attimo per andare in bagno, so già come sarebbero andate le cose.

“Su, venga…”

Sguardo assente e occhi iniettati di sangue,

“prego,”

aspetto trasandato,

“Si alzi”

magrezza patologica: chi poteva essere quello da ricoverare?

Il buon Walter, pettorali scolpiti e venti anni di
esperienza in psichiatria mi avrebbe afferrato con dolce fermezza dicendomi: “Andiamo.”

Poi, sarebbe accaduto l’ineluttabile.

“Ma, dove andiamo?”

“Non si preoccupi, la
accompagno io.

“Lei si sbaglia, io
non sono…”

“Lei deve venire con
me, l’ha detto la Dottoressa.”

“Ma io devo andare a
casa mia!”

“Sì, certo. A casa ci
andrà quando starà meglio!”

E mi avrebbe portato via.

D’altra parte, si sa, in Psichiatria il fatto che uno
rifiuti il ricovero costituisce la conferma che ha bisogno di essere
ricoverato.

“Non sono mica matto,
io!” gli avrei detto in un ultimo sussulto di dignità.

“No, lei non è matto” mi
avrebbe risposto lui, come da copione “è
solo molto stanco…”

Sarebbe andata a finire così, ne sono sicuro.

E non è affatto detto che sarebbe stato un male.